Desidero porgere un rispettoso e cordiale saluti al dr.Giuseppe Lupo che mi ha invitato,al Dott. Gianbattista Tona , ai magistrati e a tutte le autorità civili e militare e agli alunni e insegnanti presenti a questa celebrazione in memoria del servo di Dio Rosario Livatino, che assieme a don Pino Puglisi fu definito dal beato Giovanni Paolo II “ Martire della giustizia e indirettamente anche della fede” . Egli per affermare gli ideali della giustizia e della legalità ha pagato con il sacrificio della vita il suo impegno di lotta contro le forze violente del male.
Il “giudice ragazzino” venne barbaramente trucidato da un commando di quattro sicari armati dalla mafia il 21 settembre 1990 sulla strada Canicattì-Agrigento mentre, senza scorta, raggiungeva il il Tribunale di Agrigento .
E’ stato definito un “missionario del diritto” che non solo volle essere ma anche apparire indipendente. Cristiano convinto non voleva essere un eroe ma compiere semplicemente e il suo dovere coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una incrollabile e profondissima fede cristiana.
Nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, il piccolo Rosario è un bambino mite, silenzioso, dolcissimo. La sua è stata un’infanzia serena vissuta nella semplicità e nel decoro di una famiglia appartata, che lo segue con attenzione e tenero affetto. ”I figli non si improvvisano ciò che si semina si raccoglie. Con Rosario i suoi genitori hanno compiuto un capolavoro educativo. Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso”, sintetizzò nell’omelia delle esequie mons. Carmelo Ferraro, arcivescovo di Agrigento.
E’ stato iniziato il processo per la sua beatificazione in seguito alle molte segnalazioni di sacerdoti con cui egli aveva avuto un intenso scambio culturale e di fede e di semplici laici, conquistati dal messaggio di grande carità e abnegazione cristiana che promana ancora oggi dalla sua breve, ma luminosa, esistenza.
Il suo è un cristianesimo non bigotto e convenzionale che si nutre di studio, di riflessione, di intensa preghiera . Mentre ricevette la prima comunione da ragazzo a 12 anni, la cresima la ricevette da adulto a 36 anni dopo essersi adeguatamente preparato ed aver superato una profonda crisi interiore, una notte oscura come quella dei grandi mistici,.
Il Cristo crocifisso, condannato innocente morto per la redenzione dell’umanità, presente nell’aula delle udienze era per lui un richiamo alla carità e alla rettitudine. Un crocefisso teneva inoltre anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato.
Si lasciava guidare dalla Parola di Dio. In prima liceo scrisse in un tema:”La Bibbia è lo scrigno dove è racchiuso il gioiello più prezioso che esista:la Parola di Dio. Un gioiello che non si consuma mai è che non è un futile ornamento, ma un meraviglioso e saggio maestro di vita spirituale e materiale , che in esso si fondono ad indicare all’uomo una via piena di luce a cui si giunge attraverso tante strade secondarie, tanti viottoli nascosti segreti. Leggendola e comprendendola l’uomo ne riceve i migliori consigli perché la sua vita spirituale si svolga serena e senza compromessi e chi ha spirito pacato affronta la vita con coraggio e una abnegazione tali che ogni ostacolo viene eliminato”.Si tratta di una sintetica autobiografia, in cui si intravede la volontà di vivere senza compromessi e con coraggio e spirito di sacrificio, volontà che lo portò a vivere secondo onestà e giustizia.
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ha illuminato ed ispirato la sua vita.
Nel testo, tratto dal libro dei Proverbi, l’immagine del cuore che è “canale d’acqua in mano al Signore” è davvero efficace. L’autore sacro non si riferisce soltanto al re e a chi detiene il potere; ognuno ha una sua intima regalità, soprattutto se è attento alla centralità del cuore. Biblicamente infatti il cuore è la radice della persona: non solo sede dei sentimenti ma delle decisioni. Mentre “l’uomo guarda le apparenze Dio guarda il cuore. “Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio”. Ciò che interessa davanti a Dio non è una pratica bigotta puramente esteriore ma l’impegno per una vita retta che condanni ed eviti con orrore il male e pratichi il bene.
Gesù nel Vangelo ci dice che non basta ascoltare la parola di Dio, ma bisogna renderla principio di condotta concreta per istituire un vincolo di comunione con Lui..
Gesù instaura una nuova parentela spirituale, non fatta dalla carne e dal sangue, ma costituita attorno all’ascolto e al mettere in pratica la Parola di Dio, che va ascoltata con l’attenzione rivolta a Gesù, come suoi fedeli discepoli.Il Vangelo, crea una nuova famiglia, non fatta dai legami naturali, ma da quelli ben più saldi che lo Spirito di amore crea. Per essere partecipi di questa famiglia si richiede una cosa sola: ascoltare il Vangelo, conservarlo nel cuore e metterlo in pratica. Appunto, come faceva MariaSS., la prima dei credenti, perché lei per prima ha “creduto all’adempimento delle parole dell’angelo”.
Rosario Livatino ispirò la sua vita al Vangelo , sentì profondo il fascino di Dio come garante di libertà e di giustizia.
Sulla coerenza fra parola ascoltata e praticata disse: “non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili”. Questa frase ce ne richiama una di un martire del secondo secolo S. Ignazio di Antiochia che scrisse:” è meglio essere cristiano senza dirlo che dirlo senza esserlo”.
Il giorno in cui emise il giuramento da magistrato il 18 luglio 1978 scrisse:” Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarsi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige”.
Il 30 aprile 1986 tenne una conferenza su “Fede e Diritto”, che è il manifesto del suo impegno di magistrato credente:” Il compito del magistrato e quello di decidere … È proprio nello scegliere per decidere, decidere per ordinare , che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di se , è preghiera , è dedizione di sè a Dio…. La giustizia è necessaria ma non sufficiente e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’ amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana…Compito del magistrato è dare alla legge un anima,tenendo sempre presente che la legge e un mezzo e non un fine”.
Sono valori che riecheggiano nel magistero della Chiesa sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, laddove si può anche leggere che “la carità che ama e serve la persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia”(CFL,§ 42).
Il collegamento tra la giustizia e la carità lo portò all’impegno civile per la promozione della legalità e dell’onestà . Nella sua missione di magistrato si mise sotto la protezione di Dio “sub tutela Dei “come annotava nella sua agenda .
Il suo martirio colpì molto Giovanni Paolo II dopo un colloquio con i genitori di Rosario. Egli ad Agrigento il 9 maggio 1993 pronunciò un accorato appello: “Dio ha detto una volta: “Non uccidere”. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo che ama la vita, che dà la vita. Non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita.. Nel nome Cristo, , crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio”.
Questa affermazione, è una chiave per comprendere l’atteggiamento di Giovanni Paolo II nei confronti dei mafiosi, ai quali lancia un richiamo forte e intenso alla conversione, andando al cuore del problema: ciascun uomo renderà conto del suo operato a Dio, con cui deve necessariamente rapportarsi.
Gli interventi pontifici hanno avuto un indubbio influsso nei pronunciamenti dell’episcopato siciliano. Nella Nota pastorale Nuova evangelizzazione e pastorale, del 1993 la Conferenza Episcopale Siciliana, denunciando l’incompatibilità tra mafia e Vangelo, affermava che “tale incompatibilità è intrinseca alla mafia per se stessa, per le sue motivazioni e per le sue finalità, oltre che per i mezzi e per i metodi adoperati. La mafia appartiene, senza possibilità di eccezioni, al regno del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del maligno. Per questa ragione, tutti coloro che in qualsiasi modo deliberatamente fanno parte della mafia e ad essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione della sua Chiesa” (n. 12).
A questa chiara coscienza di radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa siciliana non può non sentirsi legata. Essa non può tornare indietro su questa via. Tanto più che questo cammino storico della Chiesa siciliana è stato, per così dire, suggellato dalla splendida testimonianza del martirio di un prete come don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero e di diversi cristiani laici come Rosario Livatino e tanti altri magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine “martiri della giustizia”.
In un documento del secondo secolo la “Didachè” i cristiani siamo invitati a contemplare il volto dei santi e a a nutrirci dei loro insegnamenti.
A 22 anni dal sacrificio la lezione morale che il servo di DioRosario Livatino ci trasmette è quella di un testimone radicale della giustizia come progetto di fede e come esercizio di carità.
Un giovane per il quale gli ideali valsero più della vita, ancora capace di parlare da quella tomba alla coscienza e al cuore degli uomini e delle donne di oggi e soprattutto ai giovani .
Come è scritto nella Bibbia: «Coloro che avranno indotto molti alla giustizia, risplenderanno come stelle per sempre» (Dn 12,3).
Celebrazione eucaristica in memoria del giudice Rosario Livatino Parco di Floristella
